camera ciclamino

il casale dei barboni

casa barboni ai piedi dei sassi

Casa Barboni

 

I tre barbuti figuri erano esponenti della stirpe dei Ligi Barboni : la connotazione ipertricotica tramandata dal racconto popolare, in tutta probabilità, era frutto di un’associazione mentale suggerita dal nome della casata. Lo stemma nobiliare, marchiato a fuoco sulle porte della loro abitazione, è una “L” incisa perpendicolarmente ad una corona che termina a destra, quale abbozzo di una “B”, con un rampino discendente, mentre il motto familiare, scolpito su di un camino, quale perenne monito, così recita: Virtus nobilitat homines et opus. Operando uno studio sull’origine del cognome, l’Archivio Bibliografico Araldis ritiene che l’appellativo del casato sia verosimilmente originato da “Ligia”, famiglia oristanese, le cui notizie risalgono al secolo XIII. Mancando fonti storiche certe su eventuali superstiti dei Ligi Barboni,e su come essi siano poi approdati nei territori appenninici, pare lecito trovare nelle fonti orali quei preziosi elementi per tracciare le origini della famiglia che legò i propri destini a quelli dell’omonimo villaggio, la cui vita sociale ed economica fu per secoli strettamente correlata alle vicende del sovrastante massiccio del Simone.

Passati alle cronache come i Ligi Barboni della Petrella, verso la seconda metà del Quattrocento, i signori cominciarono ad edificare la propria abitazione non distante dalla principale località, in posizione naturalmente strategica, a circa 900 metri di altezza, nel punto che rappresenta ancor oggi la principale via d’accesso al monte: attorno la dimora padronale si costituirà il piccolo borgo che nei secoli successivi, per associazione, prenderà il nome di “Casa Barboni”.

L’edificio, dal punto di vista architettonico, presenta elementi di fortificazione: in particolare le feritoie poste a lato delle finestre delle facciate frontali permettevano di colpire eventuali sgraditi avventori, prima che costoro iniziassero a salire le scalinate, mentre quelle site sulla sinistra dei portoni d’ingresso riservavano nuove mortali sorprese a quanti avessero comunque raggiunto l’ultimo gradino. Simili prudenziali accorgimenti, non erano del tutto fuori luogo: nel 500’, ai tempi del Capitanato di Giustizia, il Sasso rappresentava, con i suoi recessi rocciosi e le macchie inospitali, un naturale rifugio per i malviventi. Le macchie del Sasso, oltre ad ospitare uomini di malaffare, rappresentavano habitat ideale per numerosi branchi di lupi: l’animale già nel 500’, era preda molto ambita, dal valore di uno scudo per un lupacchiotto o di otto scudi per una lupa adulta. Uomini d’arme come i Barboni non persero dunque l’occasione di acquistare, nella prima metà del 700’, la remunerativa “privativa di caccia ai lupi”, con annessa patente granducale. La caccia al lupo rappresentava certo una forte entrata economica, ma non era certo la sola rendita che permise ai Barboni, annoverati tra i più grandi proprietari della zona, di acquistare dal Demanio, nel 1777, l’intera “tenuta del Sasso”, pare per la modica cifra di 310 lire, quando la sola macchia ne valeva 4000. Dalle attività agro-silvo-pastorali, i Ligi ottenevano il maggiore censo : un manoscritto originale, datato 1705, reperito nella casa padronale, riporta dettagli sulla situazione contabile della famiglia, con resoconti di rapporti commerciali intrattenuti nelle vicine zone di S.Donato, Valcava, Monteromano o nelle più distanti Rofelle, Villagrande, Monte Cerignone. Il libro “Debitori e Creditori” era infatti una rubrica, più volte aggiornata nel corso del XVIII secolo, dove il signore registrava ogni genere di entrate ed uscite, dai prestiti agli affitti, dai contratti di vendita a quelli di enfiteusi.

La famiglia dei Ligi Barboni conobbe anni di grandi fasti, ma con la fine dell’800’ vide il proprio patrimonio dilapidarsi, causa lo smodato amore per il gioco e le belle donne. Perdendo man mano prestigio e credibilità, si racconta che persino i contadini enfiteuti sottraessero, al controllo del padrone, ingenti quantità di raccolto, nascondendolo in “buzzi di salce cava”. L’ultimo erede dei Barboni, ormai rovinato, non vide altra alternativa che mescere il proprio sangue a quello del fattore che, ormai più ricco di lui, aveva preteso quale saldo di un prestito, la proprietà della casa padronale: un’altra canzone narra che il Ligi, per interesse, decise dunque di rubare la figlia del contadino, sposandola nel cuore della notte, alla presenza di due testimoni e di un parroco compiacente. Passata nelle mani del fattore, la casa padronale venne innanzi tutto frazionata in tre parti, destinate a tre diversi rami della famiglias: l’edificio fu poi strutturato in modo funzionale alle esigenze economico-lavorative dei nuovi proprietari.